Quanti subacquei hanno desiderato, desiderano, ritrovare nelle loro immersioni i resti di un antico legno, e in questo, un cumulo di anfore che riposano da secoli a testimoniare un naufragio nel mare periglioso degli antichi navigatori? Quanta passione, voglia di conoscere, curiosità, c’è nell’osservare una anfora, un frammento di essa, un ansa, un collo, un puntale?
E ancora: cosa sono le anfore? Come riconoscerle ed identificarle? Come ci possono aiutare a ricostruire gli eventi che sono accaduti durante quel naufragio?
Ma cos’è nella sostanza un anfora? Semplicemente un vuoto a perdere, come tanti che usiamo anche nella nostra epoca, come bottiglie di plastica, cartoni tetrapack, scatole di latta. Un contenitore cilindrico in ceramica cotta in forno, poco depurata, con anse per agevolarne il trasporto, collo più o meno lungo, a volte anche assente – soprattutto nelle forme fenicie e puniche – orlo superiore, che ci aiuta a riconoscerne la forma e puntale per consentirne l’impilaggio nella stiva della nave o l’infissione nella sabbia e in terreni morbidi.
L’anfora veniva plasmata, assemblata e cotta nei pressi del luogo di produzione del bene che conteneva, vino, olio, salsa di pesce, carne macellata o frutta; arrivata a destinazione, dopo essere stata svuotata del suo contenuto, poteva essere riutilizzata, a volte nelle sepolture[1], come contenitore di oggetti vari[2], frantumata e impastata per la creazione di pavimentazioni[3]. Possiamo quindi tranquillamente dire che la cultura del riutilizzo e del riciclaggio non è concetto moderno di cui possiamo vantare una primogenitura. Perché allora, essendo un bene senza valore, un anfora riveste tanta importanza per l’archeologia subacquea, sopratutto se studiata nella sua originale giacitura? Lo studio dei bolli impressi sull’argilla prima della cottura, la lettura dei tituli picti[4], l’interpretazione delle immagini impresse sul tappo dell’anfora, rappresentano per l’archeologo una fonte incredibile di informazioni. Da questi dati è possibile risalire alla figlina che l’ha prodotta, sapere il nome del commerciante che aveva intrapreso quel commercio, conoscere il nome dell’armatore e collegare questi dati con altri simili, così da poter ricostruire delle vite, e con esse delle attività, immaginare l’ardimento di questi navigatori e condividerne le loro preoccupazioni. Ricostruire in sostanza una parte di quel puzzle della vita che rappresenta il nostro passato. Per questo motivo potrei scherzare dicendo: lasciatecele leggere e interpretare e poi fatene quel che volete, magari anche sfoggiarle nel vostro salotto.
L’archeologia da tempo ha utilizzato lo studio morfologico, la classificazione per tipologie, l’analisi scientifica e archeometrica sui resti e frammenti di anfore o anfore intere per identificarne i luoghi di produzione, le merci trasportate, le rotte seguite dalle navi che caricavano questi contenitori ceramici. Il primo classificatore di anfore fu H. Dressel che studiò precipuamente questi contenitori, concentrando il suo lavoro nell’analisi dei materiali risalenti al periodo in cui si costituì e si sviluppò l’Impero Romano, ovvero dal III-II secolo a.C. al II-III d.C., ovvero dallo scontro con Cartagine, alla prima tetrarchia di Diocleziano.
Egli lavorò prevalentemente analizzando i frammenti di anfore che, nell’accumularsi in una discarica a cielo aperto a Roma, costituirono quello che poi i romani chiamarono monte Testaccio, una vera e propria collina artificiale formatasi con i resti di scarto, soprattutto nella forma Dressel 20, delle anfore che giungevano nella capitale e che qui, dopo essere state svuotate del loro contenuto, venivano eliminate. Egli elaborò una classificazione, che prese il suo nome con 45 tipi e forme diverse. Pur essendo questo lavoro datato e nonostante tutte le modifiche successivamente apportatevi dallo sviluppo della ricerca, la classificazione di Dressel rimane un passaggio fondamentale e un contributo importante nella classificazione dei contenitori anforari nel bacino occidentale del Mediterraneo.
Molti altri studiosi dettero il loro nome ad altri tipi di forme come Almagro, Lamboglia, il padre dell’archeologia subacquea italiana, e poi Pélichet, Beltràn, Ramon, Bartoloni. Mai nessuno riscosse tuttavia, fra il pubblico degli addetti ai lavori e dei semplici appassionati una fama, in questa branca dello studio storico, come quella di H.Dressel.
L’esigenza di trasportare il surplus dei prodotti che l’agricoltura produceva divenne sempre più pressante via via che tali prodotti, ma soprattutto gli sviluppi della tecnologia, aumentavano. L’anfora nel tempo si evolse da semplice contenitore a fondo piatto, alle forme che conosciamo, studiate per essere caricate sulle imbarcazioni e quindi con un puntale, per essere impilate fra loro o piantate sulla sabbia all’arrivo della nave nel luogo di destinazione. La logica dello scambio e del commercio, spinse alcune popolazioni a intraprendere navigazioni costiere nel Mediterraneo, alla ricerca delle materie prime di cui le loro terre erano prive.
Per ingraziarsi la benevolenza dei re, nelle terre visitate, era necessario portare doni, che significassero la considerazione con cui questi navigatori tenevano il potente del luogo e fra i doni, i più ambiti erano i crateri di bronzo o di ceramica dipinta per il vino, liquido elemento che mischiato con acqua e aromi naturali quali il miele, era il principale ingrediente del simposio, la riunione degli uomini, dopo la cena, dove si chiacchierava, o si ascoltavano gli aedi cantare le gesta degli eroi; il vino che ottenebrava la mente, prima del sonno e della notte.
Nacque così il commercio emporico del Mediterraneo, nell’evoluzione del rito del dono e dello scambio, nel secondo millennio prima di Cristo e si sviluppò costantemente, fino alla definitiva strutturazione, nella massima espansione dell’Impero Romano. Le fonti storiche, prevalentemente greche, ci parlano dei popoli del vicino oriente, aramei, filistei e fenici che furono tra i primi, dopo l’invasione dei popoli del mare, a percorrere le rotte verso occidente. Siamo nei secoli a cavallo fra la fine del secondo millennio a.C. e gli albori del primo a.C. Gli storici definiscono questo periodo “precoloniale” ovvero il tempo in cui i popoli, navigando spinti dalla necessità, indagavano il mare Mediterraneo occidentale e le sue coste spopolate o abitate da genti non particolarmente bellicose con cui iniziare lo scambio di merci e porre le premesse della vasta colonizzazione greca e fenicia che fu la protagonista del periodo che va dall’ VIII al VI secolo a.C.
Conosciamo così le anfore fenicie nelle sue forme orientali e delle costituite colonie occidentali in Africa, Spagna e Sardegna, e le anfore Greche della Magna Grecia, ma anche le etrusche e le marsigliesi.
In Italia i laboratori che si dedicavano di produzione delle anfore, chiamati figline (si legge come glicine, con la gl dura) produttrici dei contenitori per il vino, iniziarono a sfornare, il termine è quanto mai adatto, anfore, copiando di fatto, i modelli della Magna Grecia, producendo quelle che in seguito furono identificate dagli studiosi come anfore greco-italiche tarde, derivanti direttamente dai modelli prodotti nelle fiorenti colonie Greche in Puglia, Calabria e Sicilia progenitrici delle famosissime Dressel 1, ma qui siamo già arrivati al II secolo a.C. Ovvero nel momento in cui l’Impero Romano spicca il suo volo verso l’eternità….
(segue ./.)
[1] Moltissime anfore sono state ritrovate in necropoli in sepolture di persone di basso ceto
[2] Potrei citare il riutilizzo a Sant’Imbenia, villaggio nuragico nei pressi dell’odierna Alghero in Sardegna, di anfore inizialmente destinate al trasporto del vino poi riutilizzate come deposito di materiale da fonderia
[3] Si ricordi il cocciopesto romano
[4] Una sorta di etichetta eseguita con un pennello prima della partenza dell’anfora per la sua destinazione con indicazioni quali il prodotto contenuto, il nome dell’armatore della nave su cui avrebbe viaggiato, il nome del commerciante a cui apparteneva
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